In un saggio del 1932, Carl Schmitt ha teorizzato l’avvio, al termine della prima guerra mondiale, di un’epoca di “imperialismo economico”, con un conseguente cambio di paradigma. Alle contrapposizioni dei secoli precedenti, fondate sul fattore religioso (cristiano e non cristiano) o culturale (civilizzato e non civilizzato), sarebbe succeduto un paradigma soltanto in apparenza meno “violento”, costruito sulla divaricazione tra Stati creditori e Stati debitori. All’epoca, la Germania era tra gli Stati debitori, “strozzata” dai debiti da pagare agli Stati vincitori della guerra. Questi ultimi furono inflessibili e sappiamo bene cosa accadde: il costituzionalismo di Weimar svanì e nel cuore d’Europa si alimentò l’incendio che divampò nella seconda guerra mondiale.
Qualche decennio prima, Max Weber aveva mirabilmente spiegato il nesso tra calvinismo e capitalismo, per cui lo “spirito” del capitalismo, poggiante sul reinvestimento dei frutti della propria attività in nuove iniziative economiche, trova un humus culturale ideale nell’etica protestante. Questa, da un lato, rinviene nel successo terreno l’indice dell’approvazione divina e, dall’altro, per tale ragione ripudia alla radice le nozioni cattoliche del perdono e della remissione dai peccati.
Se leggiamo insieme le due tesi, emerge un quadro concettuale che consente forse di percepire meglio cosa stia accadendo, in questi giorni, nel Consiglio UE.