Nel settembre del 2015 mi recai a Lesbo. Su una spiaggia, due medici curavano i piedi di un profugo che era appena saltato da una barca. Entrambi olandesi, non sopportavano più di vedere ogni giorno le immagini dei profughi al telegiornale e avevano deciso di dedicare i loro giorni di vacanza ad aiutarli. “Quando arrivano sono soprattutto stanchi e impauriti” disse il dottor Harm Knol di Dedemsvaart. Le sue cure consistevano più che altro nel calmare la gente. “Vada un attimo a sedersi sotto quell’albero e riprenda fiato” diceva alle persone. “Qui è al sicuro.” Sul sentiero sterrato che passa sopra le spiagge tra Eftalou e Skala Sikaminias, arrivavano a piedi decine di nuovi profughi e a settanta metri di distanza da Harm Knol stava attraccando ancora un altro gommone strapieno proveniente dalla Turchia. Tra grida di gioia e pianti, i passeggeri si strapparono di dosso i giubbotti di salvataggio e li gettarono in mare.
Ormai, oltre a una crisi umanitaria, Lesbo si trovava ad affrontare anche un disastro ambientale. Il suo mare e le sue spiagge erano ricoperti da giubbotti di salvataggio buttati via e da gommoni bucati. “Non si possono piantare in asso e basta. Non affrontano certo la traversata perché qui le lasagne sono più buone” disse un soccorritore. Venti o trenta volontari provenienti da Islanda, Norvegia, Olanda, Israele e Regno Unito accoglievano i gommoni dalle spiagge nella zona di Molyvos, aiutavano la gente a sbarcare sana e salva, e distribuivano acqua e banane. Più in là sulla spiaggia una signora belga distribuiva a madri siriane e afgane abitini asciutti per neonati, spediti a Lesbo da madri solidali dell’Olanda e della Danimarca. Un turista tedesco sollevò una cassetta di mele dal bagagliaio della sua auto a noleggio. Delle bolle di sapone si libravano con la calda brezza marina.