Siamo in una fase di difficoltà in cui esiste un problema europeo. C'è una "questione europea" che si riflette in molti aspetti della nostra vita politica, della nostra vita sociale e della nostra vita economica. Per quanto come Paese noi siamo focalizzati quasi esclusivamente sul dibattito di politica interna che verte soprattutto sulla determinazione del livello ottimale di tasse, spese, deficit e quant'altro, purtroppo è nella politica internazionale – che come Paese tendiamo colpevolmente a trascurare – la radice in cui può essere trovata la soluzione dei principali problemi che ci vincolano. Un Paese si sviluppa meglio se la sua politica estera è indovinata. Un Paese va in rovina se sbaglia le scelte fondamentali della politica internazionale.
Come è cambiata l’identità europea dopo la Guerra fredda
Il problema che noi abbiamo è che apparteniamo – parlo per me ma anche per le persone che hanno tra i 5-10 anni più di me o 5-10 meno di me – a una generazione che sta vivendo una fase di transizione. Siamo cresciuti in un mondo fatto in un certo modo, con tante certezze: avevamo il bipolarismo, avevamo la sfida rappresentata dal comunismo sovietico, sapevamo da che parte stavamo e da che parte stavano i nostri avversari, con cui peraltro cercavamo continuamente di negoziare e dialogare perché nessuno voleva arrivare ad una guerra che sarebbe stata necessariamente anche una guerra nucleare di straordinaria distruttività.
Cosa è successo da allora? È successo che è sparito il "grande nemico" e alcune condizioni che avevano favorito il processo di integrazione europea così come lo abbiamo conosciuto sono venute meno, senza che neanche si sia avviata una riflessione molto approfondita su tutte le implicazioni che dal mutare dello scenario internazionale sarebbero discese su ciascuno dei nostri Paesi e anche di noi come individui. Un conto è la Comunità economica europea della Guerra fredda, con la Germania ovest dentro.
Un altro conto è l'Unione europea con al centro una Repubblica federale tedesca che è un grande Stato germanico, uno Stato che di fatto occupa la posizione centrale nel nostro continente. Un conto, poi, è un'Europa occidentale che era un'appendice di un Occidente centrato sugli Stati Uniti e che si trovava alla frontiera con il mondo dell'Oriente, un altro conto è un'Europa che per giustificare se stessa si propone come un attore che vuol contare. È legittimo, ma nel momento stesso in cui per risolvere i nostri problemi andiamo a dire alla gente che vogliamo un'Europa "protagonista nel mondo", gli attuali grandi protagonisti della politica internazionale – Cina, Russia, Stati Uniti – non rimangono passivi e non possono considerare neutrale questo tipo di narrazione politica, ma si preoccupano perché non c'è solo da parte nostra, di noi europei e di alcuni europeisti, la voglia di dire "vogliamo arricchirci" che nessuno può negarci come obiettivo.
Nel momento in cui noi diciamo che vogliamo unirci per essere più forti, per contare di più e contribuire più attivamente noi a dettare le regole del gioco in questo pianeta, è chiaro che ben difficilmente gli altri si stringeranno e faranno spazio per darci un posto a sedere. Questa è la prima difficoltà: nel momento stesso in cui noi tentiamo di sostituire il nazionalismo delle cosiddette "piccole patrie" con un nazionalismo europeo, noi rischiamo di attirare una reazione da parte di chi ci è vicino e di chi si sente minacciato che come Europa non abbiamo ancora la coesione necessaria a poterla fronteggiare.