La vicenda della nave Aquarius non è nuova per chi si occupa di filosofia politica. Uno dei casi più discussi ne riproduce esattamente la struttura. Immaginate che ci siano cinque persone che stanno annegando, perché, senza loro colpa, la loro barca è in avaria.
Non è una gita di piacere, la loro. Vengono via da un luogo insicuro, dove le prospettive di vita non sono buone.
Non sono i più disgraziati: sono abbastanza sani e capaci di manovrare una nave. Ma non sono privilegiati come cinque robusti villeggianti, tutti col diploma di bagnino, che se ne stanno sulla riva, sui loro lettini, e assistono alla scena.
L'affondamento avviene a dieci metri circa dal bagnasciuga, quindi il salvataggio non è rischioso; l'unico prezzo da pagare è una nuotata non prevista, scrollarsi dal torpore, un lievissimo rischio di bere o di trovarsi in difficoltà. Non ci sono rischi, per i salvatori, di annegare.
In spiaggia ci sono altre persone, ci sono dei bagnini professionisti, il mare è calmo. Nessuno nega che ognuno dei bagnanti abbia il dovere di salvare almeno un naufrago. E se tutti fanno il proprio dovere, tutto bene. Il problema nasce quando qualcuno se ne rimane fermo in spiaggia.
Gli altri a quel punto debbono scegliere fra tre possibilità: accollarsi il salvataggio del quinto naufrago, magari correndo qualche rischio in più; comportarsi come se tutti facessero il proprio dovere – e quindi salvare un naufrago –; oppure restarsene anche loro sulla riva, per protesta o ripicca contro chi non fa il proprio dovere, oppure per spingerlo a fare la sua parte, o addirittura a fare più della sua parte.