In principio fu la democrazia rappresentativa e l'opinione pubblica assolse alla funzione di individuare credenze ed idee condivise o almeno condivisibili. John Locke ne riconobbe un'utilità immediata nella capacità di controllo delle esigenze di stabilità della società. Tocqueville e poi Lippmann ed Habermas contribuirono a diffondere la consapevolezza dei rischi connessi a letture dominanti e troppo vincolanti dei processi decisionali più rilevanti, rispetto alle quali alte erano le probabilità di considerare come un unicum rappresentazione e percezione.
Fu evidente già nel secolo scorso quanto labile fosse il confine fra sfera pubblica, specie quella mediata (per dirla con John B. Thompson), e sfera privata.
Il concetto di opinione pubblica si è andato rimodulando man mano che l'attenzione si è spostata prima sulla capacità di influenza selettiva da parte del pubblico nei confronti dei mezzi di comunicazione di massa (superando la suggestione della teoria del proiettile magico e dell'ago ipodermico, tipica dell'era dei media power) e poi su quelle forme di condizionamento connesse alla fruizione personalizzata di contenuti informativi e non.
La rivoluzione digitale, la società complessa e disintermediata, la debolezza delle varie élites e soprattutto l'idea della democrazia diretta hanno completato l'opera, fino al punto di creare una vera e propria dipendenza dal pubblico. Che è altra cosa rispetto alla opinione pubblica. E che comporta, come effetto collaterale, l’affievolimento del ruolo dell’emittente del processo comunicativo, costretto a rinunciare, sulla base di questo rinnovato contesto di produzione di senso, alla funzione linguistica espressiva, stando alla felice classificazione operata in letteratura da Roman Jacobson.
Affievolimento visibile anche se si accoglie dal punto di vista metodologico l'approccio del modello semiotico enunciazionale di Umberto Eco e Paolo Fabbri, secondo i quali il testo mediale è il frutto dell'incontro all'interno del contenuto stesso fra il simulacro dell'enunciatore e quello dell'enunciatario. Il secondo (in quanto ricevente del processo comunicativo) ormai pesa più del primo.
Il messaggio non solo non è più il mezzo, ma rischia di essere solo ciò che il pubblico si aspetta che l'emittente dica. E ciò nel perimetro asfittico di un'agenda setting che coincide sostanzialmente con l'agenda dei media e del pubblico e che comprime di molto gli spazi di manovra dell'agenda della politica.